Nella Striscia bombardata mutilazioni e malattie uccidono ogni giorno. Venti dollari per il latte, igiene assente. I medici Usa: “Ben più di 39 mila morti”

 

Francesca Mannocchi

30 luglio 2024

«Presidente Biden vorremmo che udiste gli incubi che affliggono così tanti di noi da quando siamo tornati: sogni di bambini mutilati, e mutilati dalle nostre armi, e le loro madri inconsolabili che ci implorano di salvarli. Vorremmo che udiste le grida e le urla che le nostre coscienze non ci faranno dimenticare».

La settimana scorsa quarantacinque tra chirurghi, medici di pronto soccorso e infermieri statunitensi che hanno lavorato come volontari a Gaza negli ultimi mesi hanno scritto una lettera aperta di otto pagine al presidente Joe Biden, a sua moglie e alla vicepresidente Kamala Harris. Denunciano che il numero reale delle vittime è molto più alto di quanto riportato finora (a oggi 39 mila vittime) e chiedono agli Stati Uniti di ritirare il sostegno diplomatico e il supporto militare a Israele per ottenere, finalmente, un cessate il fuoco e fermare il «massiccio tributo umano dell’attacco israeliano a Gaza, e in particolare quello di donne e bambini».

«Nessuno di noi sostiene gli orrori commessi il 7 ottobre da gruppi armati e individui palestinesi in Israele» scrivono i medici, che chiedono però agli Stati Uniti di sospendere ogni supporto, e in più un embargo internazionale sia di Israele che di tutti i gruppi armati palestinesi perché mai nessuno di loro si era trovato di fronte a una catastrofe di tale portata.

Un chirurgo ortopedico, Mark Perlmutter scrive che per la prima volta a Gaza ha tenuto in mano il cervello di un bambino. Un chirurgo di terapia intensiva, Feroze Sidhwa, scrive di non aver mai visto ferite così orribili su scala così massiccia, senza strumenti. Donne che hanno partorito con tagli cesarei senza anestesia. Bambini nati sani e morti di fame, perché non c’era latte artificiale, non c’era acqua per nutrirli.

Secondo i medici americani, con solo eccezioni marginali, tutti a Gaza sono malati, feriti o entrambe le cose. Ciò include ogni operatore umanitario nazionale, ogni volontario internazionale e probabilmente ogni ostaggio israeliano: uomini, donne, giovani e anziani. In più, avverte la lettera, il ripetuto spostamento di decine di migliaia di persone malnutrite, senza acqua corrente e senza servizi igienici sta favorendo la diffusione di epidemie. Il 16 luglio l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha affermato che il poliovirus di tipo 2 derivato dal vaccino era stato identificato in sei località in campioni di liquami raccolti il mese scorso da Khan Younis e Deir Al-Balah, due città di Gaza ormai ridotte in macerie. Ancora secondo l’Oms dal 7 ottobre più di 100 mila persone hanno contratto la sindrome da ittero acuto, o sospetta epatite A, e che ci sono quasi un milione di casi di infezioni respiratorie acute, mezzo milione di casi di diarrea e 100 mila casi di pidocchi e scabbia.

Gli ordini di evacuazione

Lo scenario descritto dalle poche organizzazioni umanitarie rimaste sul campo nella Striscia di Gaza è spaventoso. Aiuti largamente insufficienti che hanno portato a un livello di malnutrizione mai visto. Il 9 luglio, un gruppo di esperti indipendenti delle Nazioni Unite ha diffuso un rapporto in cui si afferma che «il blocco marittimo, aereo e terrestre dell’esercito israeliano, oltre ai bombardamenti, sta causando una carestia intenzionale».

Intanto, la consegna degli aiuti è diventata di fatto impossibile: dall’inizio di maggio e dalla chiusura del valico di Rafah al confine con l’Egitto, quello di Kerem Shalom è diventato il principale punto di accesso, ma i camion che entrano sono una minima parte rispetto ai 500/1000 giornalieri di cui la Striscia avrebbe bisogno per far fronte alla fame. A giugno ne sono entrati solo 80 al giorno.

Il molo statunitense che avrebbe dovuto fungere da ponte per il corridoio umanitario da Cipro non funziona e verrà dismesso. Dalla sua installazione a maggio, costata ben 230 milioni di dollari, il molo è stato parzialmente distrutto.

Intanto la gente muore di fame e a mangiare è solo chi può permettersi di pagare cifre esorbitanti. Trenta dollari per una confezione di uova, venti dollari per il latte in polvere. Venti anche per lo shampoo, per chi dopo mesi ha bisogno di lavarsi. Chi non può pagare (la stragrande maggioranza) baratta il poco che gli resta, o che è riuscito a portare via dalle macerie. Vestiti, oggetti, i più fortunati un gioiello.

Dal 9 luglio, giorno della diffusione del rapporto sulla fame, l’esercito israeliano ha emesso numerosi ordini di evacuazione. Persone che erano già state sfollate sei, sette, dieci volte sia dalla parte settentrionale che da quella meridionale del Paese sono state costrette a spostarsi ancora da zone che lo stesso esercito israeliano aveva identificato come safe zones, zone sicure. Tre giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato un ordine di evacuazione per la città meridionale di Khan Younis, solo un giorno dopo che l’Onu aveva dichiarato che più di 190 mila persone erano già state sfollate in quell’area in soli quattro giorni.

Questo avviene poche settimane dopo che migliaia di persone sono state costrette a fuggire da Khan Younis orientale e Rafah. Lunedì scorso l’esercito israeliano aveva pubblicato su X un ulteriore ordine ai residenti di Khan Younis di dirigersi verso la zona di evacuazione di al-Mawasi. Ordini che si muovono attraverso sms, e telefonate in una zona in cui manca elettricità, figuriamoci connessione telefonica, praticamente ovunque. Meno di un’ora dopo Israele ha lanciato un attacco sulla zona uccidendo, secondo i medici di Gaza, almeno 70 persone.

Prima dell’ordine di evacuazione anche quella zona era considerata sicura.

Il 13 luglio, gli aerei da guerra israeliani hanno attaccato al-Mawasi, uccidendo 90 persone e ferendo 300 sfollati palestinesi, altri due attacchi avevano avuto luogo a fine giugno, e ancora prima uno a maggio e uno a febbraio.

«Definire gli ordini come “ordini di evacuazione” non rende giustizia a ciò che significano», ha detto Juliette Touma, direttrice delle comunicazioni dell’Unrwa: «Si tratta di ordini di spostamento forzato». Sono un milione e ottocentomila i palestinesi che si trovano ora nella zona sicura designata, ma di evacuazione in evacuazione, lo spazio per le cosiddette aree sicure si stringe sempre di più. Solo nelle ultime settimane si è ridotto del 15%.

Significa più persone in meno spazio, senza latrine, senza acqua, senza cibo, senza medicine, circondati da rifiuti, virus e morti, col rischio di essere sfollati una volta ancora. Senza un posto veramente sicuro in cui rifugiarsi.

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