Gaza. Arriva in clinica un ragazzo sui 25 anni, è molto magro, si muove con 2 stampelle. Un foulard copre la gamba ed il piede destro: nasconde i ferri che vengono messi per stabilizzare le fratture più complesse.

Ha anche una ferita all’altra gamba, una lunga cicatrice chirurgica sull’addome e il sacchetto della stomia. Ha cicatrici al volto e gli manca un dito della mano sinistra. Gli occhi però sono penetranti, lo sguardo sempre in movimento.

Pesa 40 chili. Quando gli diciamo che per guarire è importante anche mangiare, si mette a ridere: “mangiare? E che cosa? Al mercato la carne non c’è, un uovo e un chilo di farina costano quasi 15 dollari…”.

Ci ha raccontato la sua storia. Abitava a Rafah, dove coltivava un pezzetto di terra con la famiglia. In seguito alle operazioni militari è sfollato a Deir Al Balah.

Un giorno il padre ha chiesto a lui e ai fratelli di tornare al campo, per la raccolta delle olive. Stavano rientrando quando sono stati colpiti da una granata lanciata da un drone.

Un suo cugino è morto. Uno dei suoi fratelli ha dovuto subire l’amputazione una gamba. Un altro fratello è ancora in ospedale, dove stanno cercando di salvargli la mano destra.
Lui dovrà sottoporsi ad altri interventi chirurgici, per recuperare le funzioni dell’intestino e l’uso della gamba.
È uno dei più di 5.000 pazienti che abbiamo visto finora nella clinica da campo che supportiamo ad al-Mawasi.

Nella “zona umanitaria” costiera della Striscia di Gaza, 2 milioni di persone sono ammassate, stremate nel corpo e nella mente, costrette a vivere con niente.

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